Il Rumore dell’Acqua

ottobre 24, 2010

Siamo ancorati al nostro corpo, percepiamo e ci percepiamo in profondità: dimensioni, contatti, punti di fuga, spessori ed evanescenze appartengono soltanto a noi. Possiamo supporre che nemmeno uno tra gli anfratti ancora sconosciuti della realtà possieda le caratteristiche che potremmo attribuirgli. Se così non fosse, questo sarebbe il paradiso che spesso immaginiamo: luogo ideale della visione, della coincidenza tra apparenza e verità, dell’unità di carne e spirito. La divinità non vede prospettive, apre il catalogo e conferma quello che è, non percepisce: conosce. Noi partiamo alla ricerca, smarriti, mai del tutto venuti al mondo. Ogni sicurezza ci appare, col passare del tempo, sotto le spoglie di una brutale smentita.
Il nostro viaggio inizia dallo sguardo affannoso che gettiamo sul panorama, continuamente cangiante, della rotta. Questo ci ospiterà, snodandosi di fronte a noi, portando ai nostri sensi soltanto una piccola parte di ciò che potrebbe offrire. La più tragica tra le miserie – sempre uguale a se stessa, inutile, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – la nostra possibilità di sapere! È, tuttavia, una giornata smisurata quella che ci offre la conoscenza dei fenomeni. Tutto ci trasporta, navighiamo inconsapevolmente e gli strumenti di bordo che abbiamo a disposizione raramente si guastano. A testimonianza della notte dei sensi rimane, nel nostro essere, un timido custode che percorre il tragitto in senso inverso e che resta ai margini dello splendore della conquista.
L’itinerario è illuminato e sensuale, la scia che tracciamo sul mondo – siamo creati a sua immagine – ci penetra e lancia in noi dei segnali. A partire dalle iniziali sensazioni maturano periodicamente, ad ogni giro di boa, le impressioni, i ricordi e le idee.
La nostra poesia, tentativo di avvicinamento all’essenza del catalogo divino, nasce quando percepiamo estemporaneamente somiglianze, stabiliamo coincidenze arbitrarie e, ancor di più, quando abbandoniamo la nave e, liberati dagli obblighi della spedizione, scendiamo le rapide del caso. Affidiamo alle immagini che plasmiamo gli stessi intenti – o gli stessi capricci – della creazione del mondo. In questo orizzonte di pausa che affiora nella lontananza dell’abitudine, il custode della notte che è in noi affretta il passo, nega gli occhi al tragitto che ci sovrasta e illumina con la sua torcia acque oscure, ancora insondate.
Ci immergiamo – forzando la fune che ci àncora alla materia – fino a riportare a galla ciò che riusciamo a slacciare dall’illusione dei sensi. Allo stesso modo, lasciamo emergere le sensazioni alla luce della loro materialità e conosciamo, da una diversa distanza, il corpo che ci imprigiona. Il rumore, il colore, il sapore dell’acqua sono tutto ciò che troviamo a dibattersi dopo il frangersi dell’onda: sostanza neutra ma illuminata dalla nostra sete di conoscenza.
La soluzione che bagna la riva lava la traccia di un percorso a ritroso. Ripartiti da idee e ricordi nel tentativo di approdare alle sensazioni che li avevano generati, abbiamo fallito. Ritroviamo, a malapena, il desiderio nostalgico di abitare il mondo e di abbandonare il divario che frequentiamo quando creiamo. La nostra chiaroveggenza è tragedia, crollo insanabile che rigetta e si ritira a ondate, come una marea. Il nostro catalogo, incompiuto e imperfetto, è tentativo perpetrato e imbarazzante di forzare l’esistenza, di schiudere un mistero.
Abbiamo creato ciò che già conoscevamo! Nonostante tutto, la nostra vita appare in nuova luce. Le parole, sebbene rare, si riuniscono confusamente e testimoniano un rinato approccio al loro senso – che non avevamo più ascoltato –, rinominano interi periodi del viaggio – che avevamo dimenticato di compiere –, creano una polifonia di incontri – che non avevamo mai immaginato –. Un florilegio di brani composti dai diversi personaggi che convivono nella coscienza: nessuna spiegazione per chi attraccherà a questi moli, soltanto dissolvenze per sprigionare il tempo di una possibile interpretazione.
I simulacri restituiranno la città disabitata, la donna sola nella sua distanza, uno scorcio fissato da uno sguardo assente, qualche scaltro furto alle nostre sensazioni. Non nel marmo, non nel fuoco – nell’incedere frangente delle onde, il calco libererà un’impronta.

Ivan Fassio


Pretesti per una Meta. I Velieri di Ezio Gribaudo

ottobre 19, 2010

Abbiamo coscienza del mondo intero solo attraverso immagini: ingegnoso congegno, codice da decifrare, immenso teatro, ingranaggio d’orologio, perturbante labirinto, terra incognita per eccellenza. Siamo imprigionati nell’apparato della rappresentazione e, nei tentativi di giungere a un concetto, il nostro linguaggio seleziona soltanto ciò che possiamo tradurre in esperienza. La nuda verità, oltre il confine della sua muta dimora, si realizza in noi attraverso un giro di parole. Se svelato, un tale avvicinamento – percepito ingenuamente come possesso – ci lascia senza fiato.
Ogni metafora è un trasferimento – attraverso funi tese all’organo dell’immaginazione e nodi di storie condensate – di ciò che non possiamo esprimere, una sostituzione di una pausa per mezzo di un ingannevole ricorso alle dimostrazioni dei nostri sensi. Conosciamo per imitazione e le similitudini sono espedienti che fondano e articolano il pensiero. Se ciò che vogliamo manifestare è inconoscibile, allora non è possibile barattare l’insufficienza di un concetto. Non è consentito accontentarsi di un significato di passaggio o di una coordinata provvisoria in attesa della sopraggiunta proprietà di un termine completamente adeguato. In questo caso, metafora e idea coincidono e le corrispondenze tra parole, immagini e sensazioni si elevano a rapporti stretti che attraversano la storia.
L’esistenza, l’irrappresentabile cominciamento di questa serie di rappresentazioni, è avvicinata attraverso le parole del viaggio: indagine complessa, inquieta ricerca, approdo o abbandono, naufragio, ritorno verso casa, percorso a ritroso, meta agognata. Nell’archeologia dei nostri tentativi di definizione, la vita si configura spesso come una navigazione a tappe. Siamo a bordo di una nave – un insieme di strumenti che ci trasporta: il linguaggio. Se la barca si guasta, non troviamo appigli nel mondo esterno. Possiamo ricostruire soltanto dall’interno e durante il lavoro rimaniamo sulla vecchia struttura e lottiamo contro violenti temporali e onde impetuose. Modifichiamo, adeguiamo il nostro scafo riutilizzando travi dell’imbarcazione stessa o legni alla deriva, i risultati di precedenti naufragi e fallimenti. Non si esce dal linguaggio e dai suoi fondamenti: sono tutto ciò che abbiamo per interrogare il mistero. Nessun esilio è stato mai concesso, isole o galere non ci potrebbero mai allontanare da questa condanna.
I velieri di Ezio Gribaudo frequentano inizialmente la calma piatta e il sole a picco di acque placide, nell’oblìo della rotta e di ogni possibile traguardo. Montagne d’acqua debordanti di realtà, attraverso intricate e mutevoli correnti, parlano all’uomo un idioma chiaro e preciso. Le navi percepiscono la minaccia del maltempo, i segnali raggelanti che la natura lascia trapelare. Lottano in balìa dell’uragano, ricreate a somiglianza dell’uomo: le mani dell’equipaggio, in estrema prova di sopravvivenza, tese a tappare le crepe in cui la rappresentazione scivola per lasciare posto all’onda. L’elemento primordiale nega la scena, in un percorso teatrale che prende avvio da una sceneggiatura impressa in cieli immobili, origine e mappa della metafora. Il verbo passerà attraverso la pregnanza della realtà – soli rossi o neri, lune che si confondono nelle forme delle vele, acque scure sotto i riflessi del meriggio – per spegnersi nel gesto umano e svelare crudamente la prigione della carne, per ritornare al vitale brulicare dei fondali.
Le imbarcazioni non si liberano dall’abisso indifferenziato, da questo oceano di continue variazioni sul tema. Presentano diversità intuibilmente infinite che tracciano, tuttavia, un piano di immanenza sulla superficie increspata del reale. Si fanno voluminose e accolgono le stratificazioni della nostra coscienza, nel coraggioso tentativo di affrontare l’indicibile. Altre navi, più opache, continueranno il viaggio e l’euforìa dello scampato pericolo sarà pretesto per un’altra meta.

Ivan Fassio


ottobre 18, 2010

Il pensiero non reggeva la corrente.
Relitto discosto dalla riva
Nell’acqua scendeva ribollendo
Dappertutto riversava le cascate
E la schiuma che imbarcava già sul ponte.
Nel fluttuare boccheggiante del discorso
Galleggiava un esercito di frasi,
Tutte in relazione, incatenate o sparse,
Senza un comandante.
Per immagini di incontri occasionali
O ricordi di semplici tragitti
Non bastava una pagina stampata.
Ritrovare le matrici, caricarle sulla nave,
Aggirare gli uragani e tornare sani e salvi:
Era questo nostro compito la pena.

Ivan Fassio


ottobre 17, 2010

Oscurità vasta imperava
E dal caotico accumulo
Le mani traevano i sensi
D’immaginari vettori
E cinghie spinte fanali
L’estremo clangore,
Infine, del nostro scontento.

Ivan Fassio


ottobre 16, 2010

Nembi di fumo impazziti
E volo maestoso di spruzzi
Sull’oceano accasciato e scosso
D’angosciosa insonnia stremato.
Distesa grava la notte, sospesa
Sui lampi gialli, in basso scagliati,
E su bianche stelle, più smorte.
Ogni luce, diafana o forte, fissa un terrore
E scava, vegliando, il suo occhio di pace
Nel gorgo ingolfato del cielo.
Intinge un colore dal mare,
Inchiostro dei sensi, discioglie
Schiarita variante del nero.

Ivan Fassio


ottobre 15, 2010

Come plasmato
Dallo scosceso impeto
A lungo trattenuto
Della valanga,
Dall’immenso e remoto
Rullante del mare,
Dal celeste cratere
Generatore del vento.

Già accumulato in profondo
E insistente vibrato
Dell’aria in tensione,
Annunciando la carica
La foga impensata
Del tifone e l’urlare
Di vele scucite:
Violento tempesta.

Così il gesto
Scava nel foglio
Percuote la pietra
Incide cancella
Memorie dolore
Rilascia un esausto
Finale
Granello di brezza.

Ivan Fassio


ottobre 6, 2010

Son nato nella terra
Dov’è impossibile
Avere un’idea
Tranne che l’uomo fatica
E allora fortuna
Scrivo questo libro
Senza intenzioni
Pago quel che devo
Perdo se è destino
E penso a malapena
Autunno pietà
Autunno inoltrato
Ti sarei davvero grato
Se almeno fossi lieve
Con chi oggi ti ha pregato

Ivan Fassio


Testimony of the Journey. Ezio Gribaudo’s Horses

settembre 12, 2010

Set in our minds are images of ourselves and the world. These images never leave us, although they change constantly. They come alive and thrive by drawing upon an original scene, a scene we belong to.
Like immaculate knights bearing a lance these ideal figures clash with experience, yet when the impact occur, they do not shrivel up but rather open their eyes wide and shy away. If the journey continues, no knight will ever be unsaddled, nor will his horse ever lose ground against the world of ideas. Indeed, every instant our senses adjust their aim, shift the target of this mad race and rearrange our imaginary creations to fit what is real. The truth is up for grabs – both unknowable and yet desired –, leading us along a twisting, treacherous path. It is a path that endlessly and inexorably passes through defeat and abandon.
Every attempt at gaining knowledge consists in the failure of the expectation that came before, and every failure is an added value in the dramatic and never to be completed coming to life of memories. Memories spring forth from the theatrical action that lies between the images that dominate our thinking and an inevitably antagonistic reality. We exist in the breach produced by this struggle, imperfect yet endlessly renewed, in an incessant birth. It is only as we dream and remember that we can recuperate a part of our original plans, where we can once again encounter past images, caress them, as they change and wither.
Ezio Gribaudo’s work has always explored memory as the structure of consciousness: the vast lake of existence from which it surfaces, motionless in stagnant water or drawn from the whirlpool of waves, images, sounds, materials that our senses have impressed upon our minds. An archaeology of individual and collective memory is indissolubly interwoven with words – its concepts hollowed out, and presented in all of its signifying symbolism. What is represented hinges upon animals, collages, trees, flowers, pages and dies, symbols and seals. Man is not allowed inside this marvellous theatre. He is the spectator in a future scenario in which traces of civilization are made insignificant by the flow of time, blended together in a new musical score: one that is quiet, silent. Everything is salvaged from history and is presented once more in a prehistoric perspective, free from the fait accompli: the poetics of the absence of meaning on the horizon of eternity. The messenger continues to ride, but the news he is asked to deliver has, in time, lost its power to communicate shareable information.
The horse, with its symbolic value, weaves a privileged dialogue with Ezio Gribaudo’s entire artistic experience. A ferrier of dreams and the unconscious, a symbol of vital energy, instinct and the nobility of the soul, the horse is the unknowing witness to the journey, the structure of return. It exists in a universe of musical pauses, within the boundary lines of the day, in prairies swept by the wind of essence. It is so close to the concept of absence – a wandering spirit, a chance encounter, an evanescent simulacrum – that its representation constantly multiplies and evaporates upon the landscapes of memory.

Ivan Fassio


agosto 23, 2010

I.

Scolpì
Sulla fronte
Ogni immagine cara
Creata
Soffiò
Finché fu
Bagnata
Di lacrime

A lungo
D’allora
Vivemmo

II.

S’estinse
Ciò che non era
Nel canto
Immensa
Agonia
D’un tratto

III.

Chiuse
Il libro
Dei fiori
Le zolle
Scagliarono
Viole
Le rose
Crebbero
Spine

Ivan Fassio


Testimonianze del Viaggio. I Cavalli di Ezio Gribaudo (Uno scritto e quattro poesie)

agosto 4, 2010

Abbiamo, fissate nella memoria, un’immagine di noi e un’immagine del mondo. Non ci abbandonano mai, pur modificandosi continuamente. Prendono vita e si sostentano attingendo da una scena originaria, alla quale noi apparteniamo.
Come cavalieri senza macchia, lancia in resta, queste figure ideali si abbattono sull’esperienza ma, nel momento dell’impatto, anziché accartocciarsi, sbarrano gli occhi e scartano. Se il viaggio continua, mai un cavaliere sarà disarcionato e sempre il suo cavallo guadagnerà terreno nei confronti del mondo delle idee. In ogni istante, infatti, i nostri sensi correggono il tiro, spostano il bersaglio della folle corsa e adeguano al reale le nostre creazioni immaginarie. In palio sarebbe la verità, inconoscibile quanto desiderata, che ci conduce attraverso una strada tortuosa e impraticabile. Questo itinerario obbligato percorre infinitamente e inesorabilmente i sentieri della sconfitta o dell’abbandono.
Ogni conoscenza è fallimento dell’aspettativa che l’ha preceduta e ogni fallimento è valore aggiunto nel drammatico e mai concluso venire alla luce del ricordo. La memoria nasce dall’azione teatrale tra le immagini protagoniste del nostro pensiero e una realtà inevitabilmente antagonista. Nella breccia spalancata da questa tensione noi esistiamo, in una continua nascita, imperfetti e tuttavia sempre rinnovati. Quando ricordiamo e quando sogniamo, soltanto, riusciamo a recuperare parte dei nostri schemi originari, in cui incontrare ancora le immagini antiche e poterle accarezzare mentre, trasformandosi, sfioriscono.
L’opera di Ezio Gribaudo ha, da sempre, esplorato il ricordo come struttura della coscienza: grande lago dell’esistenza dal quale affiorano, immobili in acque stagnanti oppure tratti dal vortice dell’onda, immagini materie suoni che i sensi hanno impresso nella nostra mente. Un’archeologia della memoria individuale e collettiva si intreccia indissolubilmente alla parola, svuotata dai concetti e presentata nella sua simbolicità significante. La rappresentazione si ripiega su bestiari, collages, alberi, fiori, pagine e stampe, simboli e stemmi. L’uomo è estromesso da questo teatro delle meraviglie. Rimane spettatore di uno scenario futuribile in cui della civiltà restano rinvenibili soltanto le tracce rese ormai insignificanti dal tempo, affastellate in una nuova partitura: quietata e silente. Tutto è sottratto alla Storia e riproposto in una prospettiva pre-storica, slegato dal fatto compiuto: poetica del significato mancato in un orizzonte di eternità. Il messaggero cavalca ancora ma le notizie che avrebbe dovuto consegnare hanno perso, con il tempo, la capacità di comunicare informazioni condivisibili.
Il cavallo intreccia, per la valenza simbolica che porta con sé, un dialogo privilegiato con l’intero percorso artistico di Ezio Gribaudo. Traghettatore dei sogni e dell’inconscio, simbolo di energia vitale, istintività e aristocrazia dell’animo, il cavallo è testimone inconsapevole del viaggio, struttura del ritorno. Esiste in un universo di pause musicali, nelle linee di confine del giorno, nelle praterie spazzate dal vento dell’essenza. È così vicino al concetto di assenza – spirito nomade, incontro casuale, simulacro evanescente – che la sua rappresentazione si moltiplica ed evapora continuamente sui paesaggi della memoria.

I)
Sorvoli, perlustri
Ogni nostro canto
Ciò che è nostro di ogni giorno.
L’esamini, rifiuti, stringa, scruti!

– Che i cavalli della mattinata
In lontananza
Sulle risposte veglino pacati! –

Infinito giro di giostra
Che sia estasiante estenuante stremato
E infine a compassione almeno accenni
Se proprio preghiere non si danno
Ai nostri esangui fiati.

II)
Il valore del decoro
A grezzi materiali
È spesso affratellato
O scoperti in parte
O violenti e colorati.
Che risalti ogni aggiunta
Si scopra incantato
Ogni singolo strato.
Che sorprendano
– Villano impreparato –
L’occhio del pagano!
Perché lo sguardo
Cavalcando l’illusione
Possa sognare
Ricordare
La crudeltà dell’intenzione.

III)
Queste mura hanno le orecchie
Per il pubblico che accorre:
Scalpiccìo sullo sterrato
Carrozze sull’acciottolato
Colorato strepitìo del palio.
Più che occhi hanno le orecchie:
Queste mura, mai uguali,
Hanno udito per stagioni
Stesse repliche
Trite Musiche
Logorare i tasti
Di macchine da scrivere.
Ne sono segnate, tristi.

S’intravedono le quinte
Di questo palcoscenico
Per teatranti imbonitori
E il suggeritore che hai scovato
Già arrossisce
Acquattato nella botola.

IV)
Cavalcavo
L’orizzonte
Del ritorno
Osservavo
Le cose
Far giorno
Non somigliavano
A niente
Non somigliavano
Più

Ivan Fassio

Ivan Fassio


Testimonianze del Viaggio. I Cavalli di Ezio Gribaudo

agosto 3, 2010

Dal 15 Settembre al 15 Novembre 2010
BLU BOX – Arte Contemporanea
Via Carducci, 33
Asti

Testimonianze del Viaggio. I cavalli di Ezio Gribaudo
Quattordici opere – selezionate dal 1965 al 2010 – di Ezio Gribaudo, già Maestro del Palio di Asti nel 2002.

Mostra e testi a cura di Ivan Fassio
Coordinamento: Marcello Coppo, Paola Gribaudo
Inaugurazione: Mercoledì 15 Settembre 2010 dalle 18:30. Presentazione del catalogo.
Orari: martedì – sabato 16:00/20:00

“Il cavallo intreccia, per la valenza simbolica che porta con sé, un dialogo privilegiato con l’intero percorso artistico di Ezio Gribaudo. Traghettatore dei sogni e dell’inconscio, simbolo di energia vitale, istintività e aristocrazia dell’animo, il cavallo è testimone inconsapevole del viaggio, struttura del ritorno. Esiste in un universo di pause musicali, nelle linee di confine del giorno, nelle praterie spazzate dal vento dell’essenza. È così vicino al concetto di assenza – spirito nomade, incontro casuale, simulacro evanescente – che la sua rappresentazione si moltiplica ed evapora continuamente sui paesaggi della memoria” (Dal testo di Ivan Fassio, pubblicato sul catalogo della mostra)

Oltre ad essere uno dei più interessanti artisti italiani contemporanei, Ezio Gribaudo è anche uno dei più affascinanti personaggi legati al mondo dell’arte e della cultura tout-court: un editore d’arte, un grande collezionista, un instancabile e incisivo radiografo della cultura novecentesca. Gribaudo è uno sperimentatore e ha sempre alimentato il suo lavoro anche attraverso l’incontro con culture diverse. Molte sue opere sono appunti di viaggio in cui coesistono tradizione e avanguardia. La carta, la iuta, i flani tipografici, gli acquarelli ed i collages manipolati e fusi nel colore, sono il mezzo per una rappresentazione di immagini di diario di viaggio, fissate a caldo o interpretate con la memoria.

Ivan Fassio

Per informazioni:
0141/231098
bluboxart@gmail.com


Maggio 7, 2010

Acrobazie verticali, trapezio e tuffo avvitato in un bicchiere d’assenzio. Rivoltato, il candelabro, in breve mancanza d’equilibrio, in cupe fondamenta, ha spento i propri fuochi, ha lastricato le sue braccia per comporsi, austero, ai piedi di montagne. Nato per il vespro, per assenza di dipinti, nel tacere del lamento s’è fatto fiero monumento del mattino, stende l’ombra del calice, coglie della luce il limpido e l’amaro, il dolce ottenebrato. Per salire nella cupola ogni genere d’appoggio ci è negato, ci si sente scivolare, fluttuanti nel fulcro dell’inutile leva, accecati dalle vele ben disposte in simmetria.

Non manifesto per il mondo ma più discreto progetto aristocratico, competitivo tiro alla fune contro il canone, per questo era nato. Presto la storia ha fatto del volume un ideogramma, ha scalciato il piedistallo in spregio del passato. Ogni forma ha tinteggiato le sue mura d’un decoro più speciale, lo spettatore ha donato, allucinato nella gamma dei colori, un fugace senso: allo spietato pullulare della città in serie, del fradicio spazio tecnologico.

Tutti a versare il liquore, indistinti in fondo alle balere, nei sacchi a pelo della chiesa, perduti brulicanti nelle periferiche osterie, giorno e notte a spendere il residuo della continua produzione.
Tutto è falso, esiguo refrigerio ci viene dal vivere di notte, dove un goccio costa sempre meno. Soltanto in rare mattinate, aprendo gli occhi sul paesaggio, ci chiediamo quale sia la realtà che tutto invade e cela. Incuriositi, rivediamo le colline in lontananza e i monti, ancora più lontani, sono il messaggio dello scorrere del fiume. Ai piedi della sinagoga, nessuna coppa raduna le visioni per il giorno che si crea. Tacito accordo del sarcasmo e dell’ebbrezza sancisce l’inutilità della vita che ci vive. Rimane la nostra risata e il cuor leggero e l’avventura dei notturni.

Ivan Fassio