Siamo ancorati al nostro corpo, percepiamo e ci percepiamo in profondità: dimensioni, contatti, punti di fuga, spessori ed evanescenze appartengono soltanto a noi. Possiamo supporre che nemmeno uno tra gli anfratti ancora sconosciuti della realtà possieda le caratteristiche che potremmo attribuirgli. Se così non fosse, questo sarebbe il paradiso che spesso immaginiamo: luogo ideale della visione, della coincidenza tra apparenza e verità, dell’unità di carne e spirito. La divinità non vede prospettive, apre il catalogo e conferma quello che è, non percepisce: conosce. Noi partiamo alla ricerca, smarriti, mai del tutto venuti al mondo. Ogni sicurezza ci appare, col passare del tempo, sotto le spoglie di una brutale smentita.
Il nostro viaggio inizia dallo sguardo affannoso che gettiamo sul panorama, continuamente cangiante, della rotta. Questo ci ospiterà, snodandosi di fronte a noi, portando ai nostri sensi soltanto una piccola parte di ciò che potrebbe offrire. La più tragica tra le miserie – sempre uguale a se stessa, inutile, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – la nostra possibilità di sapere! È, tuttavia, una giornata smisurata quella che ci offre la conoscenza dei fenomeni. Tutto ci trasporta, navighiamo inconsapevolmente e gli strumenti di bordo che abbiamo a disposizione raramente si guastano. A testimonianza della notte dei sensi rimane, nel nostro essere, un timido custode che percorre il tragitto in senso inverso e che resta ai margini dello splendore della conquista.
L’itinerario è illuminato e sensuale, la scia che tracciamo sul mondo – siamo creati a sua immagine – ci penetra e lancia in noi dei segnali. A partire dalle iniziali sensazioni maturano periodicamente, ad ogni giro di boa, le impressioni, i ricordi e le idee.
La nostra poesia, tentativo di avvicinamento all’essenza del catalogo divino, nasce quando percepiamo estemporaneamente somiglianze, stabiliamo coincidenze arbitrarie e, ancor di più, quando abbandoniamo la nave e, liberati dagli obblighi della spedizione, scendiamo le rapide del caso. Affidiamo alle immagini che plasmiamo gli stessi intenti – o gli stessi capricci – della creazione del mondo. In questo orizzonte di pausa che affiora nella lontananza dell’abitudine, il custode della notte che è in noi affretta il passo, nega gli occhi al tragitto che ci sovrasta e illumina con la sua torcia acque oscure, ancora insondate.
Ci immergiamo – forzando la fune che ci àncora alla materia – fino a riportare a galla ciò che riusciamo a slacciare dall’illusione dei sensi. Allo stesso modo, lasciamo emergere le sensazioni alla luce della loro materialità e conosciamo, da una diversa distanza, il corpo che ci imprigiona. Il rumore, il colore, il sapore dell’acqua sono tutto ciò che troviamo a dibattersi dopo il frangersi dell’onda: sostanza neutra ma illuminata dalla nostra sete di conoscenza.
La soluzione che bagna la riva lava la traccia di un percorso a ritroso. Ripartiti da idee e ricordi nel tentativo di approdare alle sensazioni che li avevano generati, abbiamo fallito. Ritroviamo, a malapena, il desiderio nostalgico di abitare il mondo e di abbandonare il divario che frequentiamo quando creiamo. La nostra chiaroveggenza è tragedia, crollo insanabile che rigetta e si ritira a ondate, come una marea. Il nostro catalogo, incompiuto e imperfetto, è tentativo perpetrato e imbarazzante di forzare l’esistenza, di schiudere un mistero.
Abbiamo creato ciò che già conoscevamo! Nonostante tutto, la nostra vita appare in nuova luce. Le parole, sebbene rare, si riuniscono confusamente e testimoniano un rinato approccio al loro senso – che non avevamo più ascoltato –, rinominano interi periodi del viaggio – che avevamo dimenticato di compiere –, creano una polifonia di incontri – che non avevamo mai immaginato –. Un florilegio di brani composti dai diversi personaggi che convivono nella coscienza: nessuna spiegazione per chi attraccherà a questi moli, soltanto dissolvenze per sprigionare il tempo di una possibile interpretazione.
I simulacri restituiranno la città disabitata, la donna sola nella sua distanza, uno scorcio fissato da uno sguardo assente, qualche scaltro furto alle nostre sensazioni. Non nel marmo, non nel fuoco – nell’incedere frangente delle onde, il calco libererà un’impronta.
Ivan Fassio